"Le critiche al Partito democratico io esito molto ad esprimerle perché la sinistra è troppo piena di gente che per sentirsi intelligente ha bisogno di segare il ramo su cui è seduta. Ma c’è alla base qualcosa su cui oggi è molto importante ragionare. Io vedo ancora una relativa debolezza della nostra risposta al grandissimo interrogativo che si è aperto sulla vicenda storica dell’Italia. Detto senza enfasi: sul destino degli italiani. Questo è il tema che sta dietro la vicenda Berlusconi. Sta qui il cuore del conflitto, cioè di come si configura la lotta tra progresso e reazione a fronte di quella che è ormai chiaramente una crisi della nazione.
La gente non è stupida. Capisce che, arrivati a questo punto, l’uscita di scena di Berlusconi è una necessità vitale ma sente che il problema è più complesso. Intuisce che il “Caimano” è, dopotutto, la febbre non la malattia. Quale malattia? Il fatto drammatico che per troppo tempo abbiamo cercato di non vedere e che, per certi aspetti, ci rimanda ai secoli della grande decadenza italiana. A prima del Risorgimento, quando Metternich considerava l’Italia «una espressione geografica», governata come era da tante Padanie, piccoli regni e ducati tenuti in piedi dallo straniero. Quando non eravamo un popolo libero ma una plebe che delegava la politica ai preti tanto da pensare che «Franza o Spagna purchè se magna».
L’attuale degrado dell’etica pubblica non è poi una grande novità. Questo è il dramma che sta avvenendo sotto i nostri occhi. La vita dei nostri figli e nipoti si sta già impoverendo, stiamo già uscendo dal club dei grandi che contano. E se dopo 150 anni da Porta Pia viene in discussione l’unità della nazione, una conseguenza è certa: il destino della gioventù italiana sarà irrilevante. I nostri figli resteranno ai margini del mondo nuovo. Qualcuno sta parlando così agli italiani? Sta dicendo così chiaramente che si è aperto uno «stato di eccezione» (come una guerra) e che nient’altro che questo impone un governo di “eccezione”, cioè di salvezza nazionale? Semplicemente questo è il problema che Bersani sta cercando di affrontare, certo alla sua maniera.
C’è così tanto da ridire? Però è vero che il messaggio di Bersani è oscurato da troppe cose. Intanto dalle divisioni interne al Partito democratico. Chi comanda? È difficile affidarsi a un partito il quale è talmente democratico che non conta nulla essere stato eletto segretario da 3 milioni di persone. Chiunque può invocare le “primarie” per rimettere tutto in discussione. Si ammetterà che non è facile guidare in queste condizioni una delicata iniziativa politica di “salvezza nazionale”.
Noi siamo ancora al punto che il primo che passa ci sfotte perché dice che non è chiaro se siamo alleati col “centro” oppure con la “sinistra”. Ma non è chiaro a chi? Certo a chi pensa che siamo nell'Inghilterra di Westminister e che Vendola è Gladston e Casini Disraeli. Come non si capisce che è la decadenza dell’Italia che chiede l’unità più larga in nome di riforme e cambiamenti radicali? I quali, però, sono sostenibili solo se qualcuno acquista l’autorità politica e morale per fare appello non solo a Vendola o a Casini ma alle energie profonde del paese, ovunque siano collocate.
Temo che una buona fetta del PD non abbia capito nemmeno che questa è la ragione d’essere di un partito nuovo rispetto ai partiti che fecero la Prima repubblica. È il nostro ruolo storico, è il terreno su cui possiamo affermare la nostra egemonia («vocazione maggioritaria», direbbe Veltroni) rispetto a una destra antinazionale, al leghismo, a formazioni neo-borboniche, a nuovi centri notabilari . Per non parlare di un’altra fetta del Pd che invece è affascinata dalle “narrazioni” di Nichi Vendola. Ma che cosa sta narrando questo mio vecchio amico pugliese? Io capisco tante cose, ne condivido perfino alcune. Ma anche Nichi mi sembra sostanzialmente fuori tema. Se non lo fosse si sarebbe assunto la responsabilità (forte anche della sua funzione di governatore della Puglia) di cominciare a rielaborare il nostro vecchio impianto della questione meridionale. Almeno in questo il Nord ha ragione, nel non accettare più il vecchio modo di stare insieme degli italiani.
È affrontando un tema come questo che si diventa leader di una sinistra unita. Io non so fare previsioni. So che la cricca che si è raccolta intorno a Berlusconi è disposta a tutto, perfino a tenersi stretta la camorra che controlla la “monezza” napoletana pur di non mollare il potere e le ricchezze su cui ha messo le mani. So però che le cose sono arrivate al punto che viene in campo, come bisogno storico, anche un’altra possibilità. È il bisogno di dare all’Italia quello che io chiamo un partito della nazione. Non un’altra reincarnazione della sinistra storica. Deve essere una forza nuova, capace di esprimere davvero una nuova “narrazione” circa il ruolo che un’Italia unita e progressista potrebbe avere in Europa e nel mondo. Non so che fine farà l'operazione politica e l’ipotesi di governo di cui parla Bersani. In ogni caso ricordiamoci che la politica non si esaurisce nella formazione dei governi. Dopo il lungo ciclo berlusconiano è tempo che la politica democratica torni ad essere la fucina di un “movimento reale”, quel tipo di movimento che «cambia lo stato di cose esistenti». È questo stato di cose che bisogna cambiare.
E le condizioni per farlo a me sembra che si stiano accumulando. Quando giro l’Italia e incontro la gente, la cosa che più mi colpisce è la situazione dei giovani. Un immenso deposito di energie e di creatività sprecato, umiliato, (davvero “rottamato”) delle logiche attuali di mercato: il denaro fatto col denaro, un’immensa rendita che grava sui produttori della ricchezza reale per pagare i lussi faraonici di un’oligarchia finanziaria. Così, alla maggioranza dei giovani resta solo il lavoro precario. Per colpa anche di noi vecchi che sulle loro spalle abbiamo trasferito l’onere di pagare l’immenso debito pubblico accumulato. Quindi non c’è per loro futuro, speranza, innovazione. Ribellatevi. Le vicende di ieri sono un buon segno." (Alfredo Reichlin)
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